PAOLO CONTE: “LA MUSICA? COME UNA PENNELLATA”

Paolo ConteUn nuovo disco, il terzo in pochi anni, Nelson, e poi una serie di concerti tutti esauriti, prima Milano e ancora in questi giorni Roma, mentre il suo Via con me diventava tormentone delal trasmissione tv più coraggiosa e osteggiata degli ultimi tristi e goffi anni Rai. Paolo Conte, il Maestro, ci incontra nel backstage dell’Auditorium della Conciliazione mentre è già apparecchiata una tavola tradizionale con ottimo vino piemontese e cinque calici. Di lì a poco, un colto e affezionatissimo pubblico lo avrebbe abbracciato trionfalmente, come da anni succede qui e in tutta Europa. «Trovo che il mio pubblico si somigli un po’ ovunque, che vada al di là delle barriere linguistiche. Qualche brano effettivamente va più forte in certi Paesi. Ad esempio in Olanda fu un gran successo prima L’Impermeabile e poi Max, tanto che seppi che diverse madri avevano chiamato così il loro figlio e poi venivano a chiedermi cosa significasse la canzone. Bé, insomma, la storia del capo indiano poco aveva a che fare con i loro sogni, ma va bene così». ..
«In realtà io lascio grande libertà di interpretazione sulle mie canzoni, non voglio imporre niente. Mi basta raccontare qualche favola e va benissimo se gli stessi colori che vedo io in una pagina magari possono essere visti da altri con un daltonismo tutto particolare».

Deve essersi sentito responsabile per tutti questi Max neonati in giro per l’Olanda.

A proposito di colori, le sue canzoni assomigliano ai quadri o viceversa?
«Ho cominciato a dipingere ancor prima di far musica. Non so se esistano delle somiglianze, anche perché se in musica sono rimasto abbastanza fedele allo stesso modo di comporre, in pittura ho avuto i miei periodi, le mie fasi (ride di gusto, ndr). Quello dei trattori, delle macchine agricole, delle donne nude, dei cavalli, e ora da molto tempo faccio pittura informale, astratta insomma…».

La pittura è più immediata della musica?
«È tutto casuale in entrambe le situazioni, perché si comincia dal niente e poi piano piano se si vede che la mano è felice e continua a seguirti allora bene, altrimenti strappi il foglio, ricominci da capo o riprendi un altro giorno. Così anche con la musica: nasce sempre da una spolverata delle dita sul pianoforte».

Un disco, quest’ultimo, che lei stesso ha definito fuori dalle mode. Scontato per uno come lei che da sempre suona meravigliosamente anacronistico..
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«Le mode di oggi non mi interessano, però ho le mie mode antiche che mi perseguitano da sempre: gli anni 20 e 30 soprattutto, sia nella musica che altrove, perché quelli furono gli anni più belli e ricchi del 900. Noi siamo abituati a pensarli come dei cliché, ad esempio quello del charleston, ma invece erano gli anni dell’arte più rivoluzionaria… basta pensare al fatto che il cinema è nato in quel periodo, che le avanguardie pittoriche più importanti sono di quegli anni. Insomma, c’è un profumo che non saprei descrivere e che tutt’oggi continua a affascinarmi».

Prima parlava delle ingue che lei utilizza sempre in abbondanza. Inglese, francese, spagnolo e anche napoletano…
«Il mio vizio napoletanistico è antico. Mi è sempre piaciuto lo spirito dei napoletani, il loro saper far teatro e poesia insieme, la capacità unica di far frizionare assieme cose astratte e cose molto concrete». C’è un lato ludico molto spiccato nella sua musica. In «Nelson» c’è un brano dedicato alla luna in cui lei si mette addirittura a ululare… «(Ride di nuovo, ndr) Sì, quello sono proprio io che tento di modulare addirittura l’ululato di tre cani diversi. Effettivamente in quel pezzo mi sono dato molte libertà…».

C’è poi un brano cantato insieme a una voce femminile che ricorda certe produzioni di Serge Gainsbourg degli anni 80. È intenzionale? «No. Però Gainsbourg lo ricordo molto bene. Lo incontrai una sola volta e anche se non ci presentammo ho la sua immagine molto chiara: eravamo in un piccolo albergo in Francia di mattina molto presto seduti uno di fronte all’altro e lui aveva la faccia veramente distrutta dalla nottata… non che io stessi meglio. Mi piaceva, era un bellissimo dilettante».

Come ha vissuto la sua partecipazione, come leit motiv, alla trasmissione di Fazio e Saviano?
«Mi ha fatto molto piacere da autore della canzone, visto che tra l’altro il pezzo è stato proposto in tante straordinarie versioni, non solo quella di Benigni ma anche quella inusuale di Zingaretti, per non parlare del fatto che il mio batterista ha realizzato tutti gli stacchi musicali del programma. Devo ammettere che la trasmissione non l’ho ancorta vista, me la sono fatta registrare e la voglio vedere con calma».

Però almeno ci dica un buon motivo per restare o uno per andarsene dal nostro Paese…

«Da tutti i viaggi che ho fatto tornavo con la consapevolezza che il nostro era il paese più bello e simpatico possibile. Ma a parte questo motivo affettivo credo asolutamente che non si debba andare via perchè è necessario difenderla, questa Italia».

Il fatto che lei non ama parlare del “reale” sia nelle canzoni che nelle interviste perché troppo brutto e degradante non lo trova un atteggiamento un po’ aristrocratico?
«Certo, ma l’arte è aristocratica. O perlomeno, l’affetto che io provo per l’arte è aristocratico».

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