DA “LA REPUBBLICA” DEL 27 GIUGNO 2010
di ILVO DIAMANTI
Nei giorni scorsi, abbiamo sentito e letto che “la Nazionale è lo specchio del Paese”. E, in fondo, della Nazione. Lo spettacolo della sciagurata esperienza degli azzurri ai mondiali in Sudafrica: una metafora della società e, soprattutto, della classe dirigente italiana. Vecchia, senza capacità di innovare, di inventare qualcosa. Ripiegata su se stessa. Povera di identità.
E per questo incapace di affrontare una competizione aperta e dura con altre nazioni. Più giovani e affamate di successi. Vero, per la Nazionale. Ma il discorso si ferma lì. L’identità nazionale non ha a che fare con quella della Nazionale. La Nazionale di calcio non è lo specchio del Paese o della Nazione. Anche se si è soliti dire che gli italiani esibiscono l’orgoglio nazionale solo quando gioca la Nazionale. Conviene, semmai, invertire il ragionamento. Gli italiani, la società italiana: “usano” il calcio come specchio. Quando e se conviene loro. Alla ricerca di buoni motivi per stare insieme e per sentirsi soddisfatti. Per riconoscersi. A maggior ragione quando altri motivi latitano. Quando l’economia va male e il lavoro manca. Quando si diffida delle istituzioni e degli altri. Allora si è più pronti a sfilare dietro a una bandiera che prometta e permetta di vincere. E, al contempo, di sentirsi comunità, in una società sempre più individualizzata.
I mondiali di calcio, peraltro, costituiscono un’occasione unica. Perché si tratta di competizioni “inter – nazionali”, dove le squadre “nazionali” si misurano “contro” le altre. Il che rende visibili gli elementi di eguaglianza e differenza impliciti nell’appartenenza territoriale. Sottolineati dalla bandiera, dall’inno, dalla maglia, dal tifo. Noi e gli altri. Noi contro gli altri. Amici e nemici (non avversari).
La svolta è avvenuta ai mondiali del 1970, nell’epica partita Italia – Germania, finita 4 a 3. Da allora è iniziata la ricerca di “momenti magici”. Come ai mondiali del 1982 e del 2006. Occasioni per riunirsi con amici e altre persone, a vedere la partita. A casa, nei bar, di fronte a megaschermi. Per poi sciamare tutti quanti in strada e in piazza, in caso di vittoria. Offrendo (e assistendo a) spettacoli di entusiasmo collettivo. In cui ci si sente, all’improvviso, per una volta, italiani. Perché è bello vincere. Godere “insieme”. Tanto più se negli altri momenti ci sentiamo soli. Se il successo arriva inatteso. Anzitutto da noi.
Naturalmente, il calcio è lo spettacolo che, più di altri, alimenta – e si alimenta – di identità e di appartenenza. Locale, urbana, regionale e non solo. In Italia il 50% delle persone tifa per una squadra. E, al tempo stesso, “contro” un’altra squadra (Sondaggio Demo – Limes, luglio 2008). Tra i più giovani la bandiera della squadra di calcio conta più di ogni altra. Politica, ma anche religiosa. È una “fede” più che una passione. Per questo la politica se ne è impadronita. A costo di ripetersi, come dimenticare l’esempio di Silvio Berlusconi, inventore della Nuova Politica e della Nuova Repubblica?
Nel 1994, proprietario e presidente del Milan, oltre che di Fininvest. Fonda un partito che si chiama “Forza Italia”, organizzato attraverso i club. Definisce i suoi elettori: “azzurri”. Un progetto post – ideologico, che definisce il Paese come una massa di tifosi, coinvolti in un campionato permanente, che si svolge sotto gli occhi di tutti, sui media. In chiaro o in pay – per – view.
Logico che il calcio, in una politica mediatizzata, sia divenuto il terreno dove si elaborano, creano, promuovono, scontrano le identità. Anche se la Nazionale non è la Nazione, viene usata per promuoverne oppure delegittimarne il significato. Secondo la convenienza. Come ha fatto, apertamente, la Lega, in questa occasione. Identificando – lei sì – la Nazionale con la Nazione. Per metterne in dubbio il fondamento. Così, Radio Padania ha “tifato contro”. In seguito, Bossi si è detto certo che l’Italia (Nazione e nazionale) avrebbe “comprato” gli slovacchi, per vincere la partita e qualificarsi. (Nel calcio, si sa, queste cose succedono). Smentito dal risultato, ha usato l’eliminazione in senso “nazionalista”. Recriminando sull’eccessiva presenza di stranieri. Nel campionato, ma, ovviamente, anche nella società italiana. (Varrebbe la pena di prendere sul serio questa critica, per allargare la rosa della nostra Nazionale, “etnicamente pura”. Come avviene quasi ovunque.)
Negli ultimi anni, peraltro, anche Berlusconi sembra aver preso le distanze dal calcio. Ha smesso di investire nel Milan. Perché il Premier non può spendere cifre immense per i giocatori del suo club e chiedere, al tempo stesso, sacrifici ai cittadini. Poi, ha sciolto “Forza Italia” e gli “azzurri” (nel Popolo della Libertà). Forse, (anche) per ridurre i motivi di tensione con il fedele alleato “padano”. Forse perché il calcio è diventato, nel frattempo, un’arena di guerra per bande. Localiste ed estremiste. Una piazza mediatica ingovernabile. Dove è impossibile coltivare un sogno “comune”. Celebrare una storia “italiana”.
La Nazionale, dunque, non è lo specchio della Nazione e neppure del Paese. Lo può diventare solo quando ai cittadini e alla classe dirigente “conviene” specchiarsi in essa. Cioè: se vince e (possibilmente) convince. Altrimenti, viene negata e rinnegata. Oppure ignorata. Come ieri, al ritorno degli azzurri, in aeroporto. Pochi tifosi, qualche insulto e molta indifferenza.
Noi, post-italiani (copyright di Berselli), per dirci e sentirci di nuovo italiani – e orgogliosi di essere tali – attenderemo un’occasione migliore.