IN QUELL’ABBRACCIO LA FOTO DI UN PAESE CHE E’ GIA’ CAMBIATO

mario-balotelli-motherCi sono immagini che vanno oltre la cronaca, l’emozione, il gesto. Ci sono istantanee che entrano nella storia in punta dei piedi senza fare rumore, in maniera pudica e lì restano per non andarsene più. C’è una foto, ad esempio, che è in bianco e nero. Ritrae due ragazzi di colore con il capo chinato, lo sguardo rivolto verso il basso ed il pugno, fasciato da un guanto nero, alzato verso il cielo. Lo stadio di Città del Messico è la loro vetrina. Tommie Smith e John Carlos, neri e americani, hanno appena corso i 200 metri piani vincendo la medaglia d’oro e di bronzo. Ma la loro non è gioia. Nel 1968 quei pugni, sul podio, raccontavano altro. Rammentavano a tutto il mondo la lotta dei neri d’America per i diritti civili e l’uguaglianza razziale, le Black Panther, il cammino lento di una fetta di popolazione emarginata ed esclusa nel paese più potente. Quarantaquattro anni dopo a Varsavia c’è un altro stadio e un’altra istantanea che vale la pena essere raccontata. Spiega più di mille analisi o statistiche. Ritrae un abbraccio, forte, incondizionato, pieno. Una madre stringe il proprio figlio tra le sue braccia. È una signora di una certa età, bella perché felice. Si chiama Silvia ed ha la pelle bianca. Quello che si coccola è suo figlio adottivo, ed è di colore.Un ragazzo giovane e forte. Talmente bravo che tutti al suo nome, Mario, gli hanno appiccicato il prefisso «Super». Mario ha appena portato la sua nazionale in finale nel campionato europeo di calcio. Silvia Balotelli stringe suo figlio Mario davanti a venti milioni di persone (assiepate davanti alla tv a guardare Italia – Germania)mail gesto non è plateale, è quasi nascosto e per questo più vero. Eppure in quell’abbraccio non c’è solo l’amore senza confini che una madre può provare per il proprio figlio. Quello scatto ritrae un Paese diverso. Quell’immagine è l’emblema di una faticosa ma profonda integrazione tra diverse generazioni, tra diverse culture, tra mondi lontani. Un’integrazione già avvenuta, nonostante le leggi italiane, anche quando si tratta di minori, spesso non la riconoscono. Come nel caso di Mario Balotelli. Mario è, infatti, figlio di immigrati. È stato abbandonato, per causa di forza maggiore, dai genitori naturali, i ghanesi Thomas e Rose Barwuah, che l’hanno messo al mondo il 12 agosto 1990 a Palermo per poi andare a vivere a Bagnolo Mella in provincia di Brescia. Viene affidato ai signori Balotelli – che hanno già tre figli, Corrado, Giovanni e Cristina – perché i coniugi Barwuah non possono garantirgli le cure per una malformazione intestinale che tormenta Mario. Mamma Silvia e papà Franco si fanno carico delle cure e chiedono l’affido. Il bimbo va a vivere a Concesio, alle porte di Brescia. Mario ama il calcio. Inizia all’oratorio di Mompiano, il quartiere dove sorge lo stadio di Brescia. È bravo, in maniera sfacciata. Quel piccolo ragazzo di colore, che seppure nato in Italia per la legge è ancora uno straniero, se lo contendono le maggiori squadre della Pianura Padana. Gira parecchi campi, squadre, città. Scopre come è difficile avere la pelle scura, gli insulti, il razzismo senza senso. Con lui in macchina ci sono sempre Giovanni Valenti, il suo primo tecnico, e suamamma Silvia. Ad ogni viaggio Mario studia: italiano, le tabelline, la storia. Ogni provino una lezione tenuta proprio dalla mamma che non vuole che il figlio perda il passo con la scuola. A sedici anni debutta col Lumezzane in Serie C1. Poi arriva l’Inter che se lo prende e lo alleva. Per la squadra nerazzurra è uno dei tanti extra comunitari che si vedono al centro di Interello. Mario però parla con un accento stretto bresciano, mangia italiano, frequenta le stesse scuole, vive le stesse emozioni, gli stessi eroi e miti giovanili, dei suoi coetanei. Ma per esser italiano, legalmente cioè, deve aspettare il 12 agosto 2008 quando riceve la cittadinanza al Municipio di Concesio. L’immagine di Tommie Smith e John Carlos mostrò al mondo che qualcosa negli Stati Uniti stava cambiando. La foto di Silvia e Mario ha la stessa forza dirompente. Mostra un Paese che da tempo ha messo alla spalle le proprie paure.

Articolo di Roberto Rossi da l’Unità del 30 Giugno 2012

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