IL DOLORE CHE CHIEDE SOLUZIONI

barconeIl mare è amico o nemico, a suo capriccio. Può essere ponte per un passaggio verso lidi ambiti, può essere culla di un bimbo appena nato, può essere nutrimento e accoglienza. Ma può anche trasformarsi in una bara molle e indifferente. Una grande bocca d’acqua che divora i corpi umani senza lasciare tracce. Che pena vedere quei giovanissimi corpi affogati per stupide mancanze: una barca solida, un poco di spazio in più. Il fatto che molti siano arrivati sani e salvi sulle nostre coste non vuol dire che non corrano rischi. Gli è andata bene, ma col mare si sa, non si scherza. E questi giovani pieni di vita, di speranze e di coraggio, sanno che possono affogare quando entrano in un barcone sovraccarico che affronta arrancando le onde del Mediterraneo. Qualcuno urla: basta, cacciamoli via. Come se fosse facile. Come se fosse giusto. Come se fosse umano. Tanto per cominciare i Paesi di origine non li vogliono. E allora cosa fai, li mandi in bocca agli squali? Non è facile avere a che fare con gente che scappa dalle guerre, dalla fama, dalla mancanza di lavoro. Anche quando gli italiani scappavano dall’Italia, in tempi di magra, sapevano di rischiare. Anche loro, i nostri nonni e bisnonni, saccheggiavano i risparmi di una vita per acquistare un biglietto carissimo (c’è sempre chi approfitta dei viaggi dei disperati) e partire verso l’ignoto. Nessuno è mai riuscito a fermare le masse che emigrano. Venti milioni di italiani sono scappati all’estero, ricordiamolo. Venti milioni di italiani, solo nel ‘900. Un Paese intero che si è insediato in vari Paesi del mondo. E questi italiani hanno dimostrato subito una capacità di adattamento e di integrazione. Il nostro popolo ha subito elaborato una creativa e savia cultura dell’emigrazione. Mentre è lento a elaborare una cultura dell’immigrazione. Ognuno agisce per conto suo: chi è generoso e prende sul serio la parola del Vangelo, li accoglie con altruismo e comprensione, chi crede nella difesa a spada tratta del suo piccolo particolare, inveisce contro di loro, magari poi usandoli per i propri comodi, impiegandoli in lavori umili e mal pagati. Lo stesso accadeva agli italiani che emigravano al principio del ‘900. Chi vuole avere una visione dall’interno delle tribolazioni e del dolore dei nostri emigranti legga un bellissimo libro di Elena Pianini Belotti chiamato Pane amaro o legga uno splendido romanzo di Melania Mazzucco chiamato Vita. E’ da sciocchi non voler capire che i movimenti di popolo non si fermano. E’ da ciechi pensare di chiudere le frontiere, di cacciare “fuori dai ball” persone che scappano alla fame e alle guerre, in cerca di un futuro migliore. Ma allora, dicono in molti, cosa dobbiamo fare? Accogliere milioni di emigranti? Nutrirli a danno dei nostri che rimarranno senza cibo? Domande tendenziose di chi sta usando le braccia e la mente di tanti stranieri che abitano nel nostro Paese. Vorrei sapere che cosa succederebbe se improvvisamente tutte le badandi che curano i nostri anziani se ne andassero dall’Italia. In quanto al numero abbiamo già avuto questo problema e l’abbiamo saputo risolvere: al tempo dell’emigrazione albanese, ben 30.000 persone sono approdate sulle coste pugliesi. Momenti di panico. Ci sommergeranno, urlava anche allora qualcuno. Ci porteranno via la camicia. Niente affatto. Dei 30.000 albanesi, quasi tutti bravi lavoratori, alcuni sono rimasti e si sono integrati, altri sono tornati in patria, altri sono emigrati in Paesi europei ed extraeuropei. Questo è un momento storico di grandi cambiamenti e di grandi emigrazioni. Guai a trovarsi sprovvisti, scettici, impauriti e impreparati. L’unica è rimboccarsi le maniche e agire. Capire chi sono e cosa vogliono prima di tutto. Poi operare su due fronti: da una parte andare nei Paesi dove ha origine la fuga e aiutarli a costruire luoghi e occasioni di lavoro, dall’altra preparare un programma di integrazione che sia soddisfacente sia per noi che per loro, stabilendo patti precisi, dando il buon esempio, non pensando solo a sfruttarli selvaggiamente, ma elaborando tutti insieme una cultura fatta di regole severe, ma condivise, di umana convivenza. Non ci sono alternative.

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