SI VIS PACEM… PARA PACEM

di Andrea Marinelli

L’annuncio di portare la spesa militare italiana al 5% del PIL rappresenta un punto di non ritorno per il nostro Paese. E sebbene il dibattito pubblico si concentri spesso su cifre astratte e strategie geopolitiche, è nelle regioni come le Marche che gli effetti concreti di questa scelta rischiano di farsi sentire in modo profondo e contraddittorio.

Le Marche, terra di manifattura, di cultura, di agricoltura e di un tessuto sociale ancora in parte comunitario, stanno già vivendo una delicata transizione: lo spopolamento dell’entroterra, la crisi del piccolo artigianato, i tagli alla sanità pubblica e una scuola sempre più impoverita. In questo contesto fragile, l’aumento della spesa militare non rappresenta una garanzia di sicurezza, ma una minaccia ulteriore a un equilibrio sociale già precario.

Nel 2024, l’ASUR Marche ha denunciato carenze strutturali in ospedali come quelli di Camerino, Fabriano e Jesi. Liste d’attesa sempre più lunghe, reparti accorpati, personale sotto dimensionato. Mentre queste emergenze sanitarie restano irrisolte, si propone di drenare miliardi verso industrie belliche, magari anche locali, in nome della “difesa nazionale”.

Nelle Marche infatti ci sono già realtà industriali legate al settore difesa: aziende meccaniche del maceratese e dell’anconetano potrebbero beneficiare di nuovi appalti. Ma a quale prezzo? Alimentare l’economia della guerra rischia di ridurre la regione a un ingranaggio di una macchina che produce strumenti di morte, piuttosto che servizi alla vita.

Un altro effetto collaterale sarà sul piano culturale e formativo. Con l’aumento della spesa militare, cresceranno inevitabilmente le pressioni per incentivare arruolamenti, investimenti nelle scuole militari e la “normalizzazione” della presenza bellica nel quotidiano. Nelle Marche, dove già molti giovani fuggono per mancanza di opportunità, lo Stato potrebbe offrire solo due opzioni: divisa o emigrazione. È questa l’idea di futuro che vogliamo trasmettere?
Chi si oppone a questa deriva non è ingenuo. Sa bene che viviamo in un mondo complesso, segnato da minacce reali. Ma un conto è rafforzare la difesa in modo ragionato; un altro è investire nella logica della deterrenza permanente, mentre si abbandonano le periferie, le scuole e gli ospedali. Il 5% del PIL alla difesa è una scelta ideologica, non tecnica: è la sconfitta dell’idea che la pace si costruisca con il welfare, l’inclusione, la cultura.

Come marchigiano e come uomo di sinistra, sento l’urgenza di dire che il nostro territorio merita un’altra visione. Una visione che metta al centro le persone, non i profitti delle multinazionali belliche; la sanità pubblica, non i carri armati; le scuole di montagna, non le basi militari.
Le Marche non hanno bisogno di missili, hanno bisogno di futuro. E il futuro, se davvero vogliamo difenderlo, non si arma. Si costruisce.

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