QUANTA STRADA PER L’ITALIA DI CESARE «ADESSO LA SPAGNA»

UKRAINE SOCCER UEFA EURO 2012

La sua Italia fa l’acqua buona. È una carezza ai figli. È una bellissima canzone che parla con i vecchi, con i ragazzi, con gli esodati, con i disoccupati. Non sono tempi leggeri, ma i palloni possono volare via, costruire una realtà diversa e permettere a un popolo di abitare un posto migliore. Alla Nazionale succede spesso, e questa volta c’è un volto che trasmette verità a questa fuga. Un uomo dal fisico asciutto e allenato, che vorrebbe parlare poco ma è costretto a spiegare tutto, con i toni appropriati e gli occhi curiosamente inarcati, preoccupati, buoni. Ha il sorriso facile, Cesare Prandelli, l’uomo condiviso di questo Paese eternamente diviso, proprio come l’altro, al qualemandagliauguri: «Sono orgoglioso di avere un presidente come Napolitano, praticamente ci ha adottato». Prandelli è «un uomo normale », insolita lusinga in uno spaccato pervertito, esagerato qual è il calcio. Una normalità che per contrasto diventa eccezionale, perfino seducente. Un giorno ci raccontò del padre, Gianni, che voleva giocare a calcio ma doveva aiutare il nonno Cesare – i nomi, un tempo, “saltavano” così dentro le famiglie – nel lavoro di gassosaio, alla piccola fabbrica dei Prandelli, a Orzinuovi: la bibita che “tirava” l’impresa era la Bigdrink, la semplice, colossale Grande bevuta. Producevano anche altre spume, bionda, scura, al cedro. Il “nostro” Cesare era il piccolo garzone che le consegnava ai clienti della Bassa. Del primo mestiere è rimasto il soprannome: «Spuma». Il padre, ci disse, giocava (bene) nei ritagli di tempo, ma il nonno si arrabbiava e lui scappava sopra un albero, davanti casa, e ci passava la notte: la mattina era un giorno nuovo. Poteva finire al Brescia ed era il suo sogno, ma il nonno non lo mandò a provare una vita diversa da quella tracciata.

DA DOVE VIENE
Quando parla di questi affetti, Prandelli cerca con gli occhi le parole, chissà dove. Gli occhi nocciola che ogni tanto si commuovono, come succede quando si racconta una storia. Fu ragazzo trent’anni dopo il padre: questo il suo vantaggio. Poteva passare qualche ora all’oratorio, che stava di là dalla strada, a tre metri da casa. Il primo regalo che ricorda di suo padre è «un pallone di gomma leggera»: le frustrazioni non dovevano essere ereditate. Cesare poteva volar via, dietro a quel pallone. Cominciò così e si deve parlare di lui, cercando momenti nella sua terra, nella sua memoria. Non solo nel dolore che tutti conoscono perché lui ha vissuto pubblicamente, con una scelta (rinunciare alla Roma per stare accanto a Manuela, malata di tumore) e con una cerimonia, allargando il lutto a tutto il Paese, piangendo assieme a chi ci stava, diventando testimone del suo dolore, prestando il suo volto ai manifesti della lega che lotta contro i tumori. Un’altra volta parlammo all’ombra di un pino di Coverciano. L’Italia giocava bene e vinceva spesso, bisognava spiegarlo e disse: «Il centrocampo, è tutto lì. Sono tecnicamente bravi e io non ci rinuncio. Mi chiedono di considerare le “ali”, o magari azzardare tre attaccanti. Ma questi quattro giocatori sono forti e io parto da loro, dal senso del campo di Pirlo, dalla qualità di Montolivo e Marchisio, dalla presenza di De Rossi». Ecco il pezzo più importante della sua idea di calcio: il centrocampo di qualità. Sembra scontato, ma non lo è: sono quattro “protagonisti”, nessuno di loro abituato a correre nella profondità – nemmeno Marchisio, che “segue” sempre l’azione, per terminarla, ma non si muove sui lati per favorire inserimenti altrui. Farli convivere trascina dietro tutto un modo di stare in campo – di possederlo. Addossa ai terzini di spinta la parte grama della fatica, e vuole attaccanti anomali che sappiano svariare, assecondare quel palleggio, dialogare con quel centrocampo, “lavorare” sugli esterni (come ha fatto Cassano contro i tedeschi). Quando il nostro atipico centravanti delle qualificazioni si è fatto male (lo sfortunato Giuseppe Rossi), Prandelli non ha nemmeno provato a rimpiazzarlo con gli attaccanti centralche il campionat offriva: né Matri, né il ridimensionato Pazzini o il giovane Destro. E nemmno Di Natale, il migliore di tutti nel mestiere del gol, fisicamente atipico, d’accordo, ma tatticamente ormai convertito al ruolo di prima punta. Per la sua luminosa abitudine a segnare è stato rimorchiato in questo Europeo, ma non è titolare. Quando l’infortunio di Pepito Rossi ha turbato l’equilibrio trovato, Prandelli ha scelto Balotelli. Per carità: nessuno contesta mai un azzardo in favore del talento, anche se questo alligna dentro un tipo incostante, maleducato, esasperato. Però Balotelli mai è stato titolare in nessuna delle sue squadre, né l’Inter né il Manchester City. Ha sempre pagato le tasse alla sua anagrafe e al suo carattere, sacrificato per giocatori più lucidi, esperti, pronti. La prima, vera squadra di Mario è stata questa Italia. Il suo primo allenatore è stato Cesare Prandelli. Sì, Roberto Mancini lo ha scoperto e lo perdona sempre, lo allontana dal campo e lo rimette al suo posto.
Ma chiunque avesse visto Balotelli giocare in Inghilterra non ne ha mai valutato bene la stoffa, né che compito, che ruolo, che futuro avesse. In questo mese, il giovane promettente e irrequieto è diventato un giocatore padrone dell’attacco, capace di anticipare i difensori sia quando è servito a terra che quando è cercato a palla alta. Bravo a smarcarsi sulla verticale, come un centravanti consumato (in due partite è arrivato tre volte solo davanti al portiere) e a tornare dietro a prendersi le punizioni che fanno respirare i compagni (è stata la boccata d’aria contro il forcing dei tedeschi, nei primi quindici minuti del secondo tempo). Cassano- Balotelli è una coppia d’attacco che nessun tecnico avrebbe mai proposto, e difeso, fino all’incasso di giovedì sera. Ma è l’unica che s’incastra nell’idea di calcio di Prandelli, il nostro primo commissario tecnico che ha smesso (anzi, evitato) i panni di “selezionatore” per tenersi i suoi di allenatore. La Nazionale gioca come una squadra di club ed è ormai un’irreversibile strada nella quale provò a camminare Arrigo Sacchi, per ritrovarsi sfibrato dalla sua ossessione per il nuovo, l’inusuale, il grande. Prandelli si è avviato con la saggezza di chi deve scalare una montagna, un passo alla volta. Eppure era un sentiero già battuto con profitto da altre Nazionali, dalla Spagna e dalla Germania con più convinzione.

SBAGLIARE I CONTI
«Resto in Nazionale», dice Prandelli, che allontana le offerte e acquieta anche le sue voglie: «Mi manca il lavoro quotidiano sul campo…». Non può lasciare questo capolavoro. È un patrimonio del Paese, un’attesa evasione dal caldo e dalla tristezza, una gioiosa fuga in uno spazio plebeoma così culturalmente nostro, latino. «Sì, ma questi due mesi sono stati pesanti », fa Cesare, che era partito in mezzo al calcio scommesse, alla stanchezza di una stagione piena di troppe cose brutte. Ha spremuto le migliori, trasportando in Nazionale la difesa della Juventus. Ha protetto il gruppo balbettando davanti all’avviso di garanzia a Bonucci e agli sfondoni di Buffon: servivano quelle reticenze in un momento in cui tutto poteva sfarinarsi. Il gruppo è per suo stesso concetto qualcosa di chiuso, familistico, anche mafioso, sia permessa l’avventatezza. Adesso la Spagna, ma a Prandelli serve poco, «dobbiamo recuperare le energie, ho un giorno buono per preparare la partita, ma se stiamo bene può bastare, ce la giocheremo alla pari». Alla pari noi e i campioni d’Europa e del mondo,maanche noi lo siamo stati di recente: il governo del calcio è in queste due penisole mediterranee, impoverite dalla crisi, sotto lo schiaffo del potere economico e politico. Ci sarà anche il nostro primoministro Mario Monti a Kiev: dall’embargo verso la cattiva Ucraina era esente la finale, questo il patto dei governatori dell’Europa, sembra fosse un’idea della Merkel. Aveva sbagliato i conti, capita anche a lei.

Articolo di Marco Bucciantini da l’Unità del 30 Giugno 2012

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