NESSUNO TOCCHI LE FESTE CIVILI. IN DIFESA DEL 25 APRILE E 1° MAGGIO

25-aprileChe cos’è una nazione?”, si chiedeva, circa 130 anni or sono Ernest Renan, crittore, politico e storico francese. “Un plebiscito di tutti i giorni”, rispondeva: una nazione nasce dalla condivisione di ideali, più che da quella di una terra natia, o di un impalpabile etnos o di una discutibile identità “di sangue”. Gli ideali di una nazione sono riconoscibili dai discorsi pubblici, da un “idem sentire” che si costruisce nel tempo, dopo la creazione di confini, a partire dalla sottoscrizione di un patto unitario. Ora, sul patto unitario, la Costituzione repubblicana, nata a opera dei vincitori della lotta al fascismo, tra il 1945 e il 1948, siamo (più o meno) tutti d’accordo: anche, sia pure a parole, proferite a mezza bocca, coloro che stanno cercando da anni di manometterla, quella Costituzione ; ma, se ci riproveranno, credo di poter garantire che troveranno pane per i loro denti, come gli esiti di alcune consultazioni referendarie, vecchie e nuove, hanno mostrato; aggiungo, ora, che lorsignori troveranno pane per i loro denti, se proveranno davvero a scippare ai lavoratori la loro festa, ai cittadini il loro 25 aprile e il loro 2 giugno. Come forse si sa, in un silenzio imbarazzato e imbarazzante delle opposizioni, la manovra economica di questo governo fuorilegge, decretata d’urgenza (!) in pieno Ferragosto, ossia in piena distrazione generale, e con il bombardamento mediatico che sottolinea l’inevitabilità del “risparmio” (senza far notare chi paga e chi non paga il conto, nel bolso e ingannevole ritornello che “i tagli sono necessari”), ha deciso lo spostamento alla domenica più vicina delle ricorrenze civili della Repubblica. Non si tratta soltanto di uno scippo volgare ai danni dei lavoratori, e della cittadinanza nella sua interezza: si tratta di un gesto che disconosce, per ignoranza e stupidità, ma anche per una profonda estraneità di questa banda (giunta al potere ricordiamolo, grazie a meccanismi elettorali perversi e a un controllo ferreo dell’informazione radiotelevisiva, una banda che non rappresenta affatto la maggioranza del Paese) alla cultura della Repubblica democratica italiana, la sua indifferenza al patriottismo costituzionale, il solo ammissibile (da Renan a noi) in democrazia. L’identità di una comunità nazionale, per l’appunto, si costruisce attraverso la lingua, dunque attraverso la scuola, e i suoi programmi di insegnamento, attraverso la letteratura e le altre arti e scienze; ma si costruisce, come accennavo, altresì nel discorso pubblico, nelle cerimonie, nei monumenti, nelle festività civili, che non sono soltanto, semplicemente, momenti di astensione (retribuita) dal lavoro, e neppure è sufficiente pensarle come occasioni di ritrovo, e di orgoglio di una parte di popolazione (i ceti subalterni, i lavoratori, coloro che si riconoscono nei valori della Resistenza e dell’Antifascismo, e così via): quelle festività costituiscono il cemento vivo di una nazione, le tappe della sua storia. La quale, ci insegnano gli antichi, cammina su due gambe: la geografia – scienza dei luoghi – e la cronologia – scienza del tempo. Noi abbiamo bisogno di sapere e ricordare dove e quando si sono determinati gli eventi costitutivi della nostra storia patria. Le solennità civili servono precisamente a questo scopo. Guai a cancellarle. Si badi poi, come segnala l’Anpi, che questo provvedimento, colpisce le sole tre festività civili sopravvissute a precedenti atti governativi; e, guarda caso, sono tutte, nell’immaginario di un Berlusconi e dei suoi accoliti, “feste di sinistra”: perché, per loro, che sono ormai di fatto tornati alla monarchia, neppure costituzionale, ma patriarcale e proprietaria, anche la festa della Repubblica, il nostro “sacro” 2 giugno, ha un sapore rivoluzionario.
E dunque, via! Via la ricorrenza che ricorda la centralità del lavoro (e denuncia lo sfruttamento dello stesso, e le sue vittime innocenti, e la sua nobiltà, malgrado tutto); via la ricorrenza che accende i riflettori sulla vittoria di popolo contro il nazifascismo; via la ricorrenza che certifica che l’Italia è (o vorrebbe e dovrebbe) essere uno Stato democratico e repubblicano, retto da una Legge fondamentale che è quanto di meglio si potesse pensare allora e regge benissimo oggi i suoi 63 anni. Siamo insomma, davanti a una sorta di smantellamento simbolico dell’identità italiana. La sola che ci sta a cuore: quella democratica e repubblicana. Un piacere alla Lega che blatera a giorni alterni contro l’Italia. E un piacere, ancora più osceno, alla Chiesa cattolica, in quanto le sue festività, quelle, il governo si è ben guardato dal toccarle. Un ennesimo autogol dello Stato liberale e laico, che, mentre cancella le tracce storiche della propria identità, non esita a certificare come intoccabili quelle di un’agenzia religiosa, che tra l’altro non rappresenta più se non una fetta di italiani e italiane. Dunque, da oggi, se questo piccolo passaggio della manovra economica diventa legge, l’Italia non sarà più la Repubblica fondata sul lavoro, nata dalla Resistenza antifascista, ma un possedimento della Chiesa. O meglio, una comproprietà tra il Papa e il Cavaliere.
Li vogliamo lasciar fare?
 
Angelo D’Orsi da Il Fatto Quotidiano – 17 agosto 2011 –

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