Non amiamo molto soffermarci a riflettere sulla morte. Quando qualcuno prova ad accennarne ci assale una sensazione di turbamento. La morte sembra riguardare solo gli altri. Non sembra appartenerci. Eppure, come si usa dire, se c’è una cosa certa nella vita è che tutti dobbiamo togliere il disturbo. Ma nel nostro campare quotidiano facciamo di tutto per dimenticarlo. La cultura occidentale ha completamente rimosso sia il tema della morte che l’elaborazione sociale del lutto e, con la complicità della scienza, si è messa ad inseguire la chimera dell’immortalità. La nostra è divenuta una società che ha barattato la speranza nella Vita Eterna con l’Elisir dell’eterna giovinezza.
Così per non turbare la nostra suscettibilità la morte si consuma sempre più spesso dentro gli ospedali o in luoghi lontani da occhi indiscreti. La solitudine imposta al morente è figlia del nostro spavento nel guardare ciò che ci attende.
Tuttavia, se non la si incontra prematuramente, se si ha la provvidenza di invecchiare, giunge lo stesso il momento in cui si deve fare i conti con questa presenza inquietante. Non è più possibile né negarla, né tacerla. In effetti, i nostri ‘vecchi’ ci assicurano che l’idea della morte è ben presente nei loro pensieri. Alcuni confessano candidamente di non temerla per nulla. Si affrettano, in ogni caso, a sottolineare che per poterla affrontare il più serenamente possibile è necessario poter contare, fino in fondo, sulla presenza affettiva dei propri familiari. L’anziano ha bisogno di una “rete” parentale, ed amicale, che lo protegga e continui a valorizzarlo come persona. Giovanni Paolo II nella sua Lettera agli anziani ci ricorda le parole di Cicerone: “Il peso dell’età è più lieve per chi si sente rispettato ed amato”. Ciò che, infatti, intimorisce e disarma maggiormente l’anziano è il pensiero di essere dimenticato, di non avere più un posto nel cuore e nella vita delle persone a lui care. Teme di essere sopportato, di essere di peso. Ha paura che gli sia tolta la cosa a cui tiene di più: la dignità. Preoccupazione, purtroppo, non sempre infondata. Troppo spesso le cronache ci descrivono morti solitarie, scoperte accidentalmente a distanza di settimane o addirittura di mesi. Ma al di là di ciò che con una certa mancanza di pudore preferiamo etichettare come ‘casi limite’, lo straziante monologo che l’anziano si trova a sperimentare nella nostra società è più frequente di quanto si voglia credere. Ed è forse questo taedium vitae, che fa della morte qualche cosa da desiderare, la più grave malattia della vecchiaia. Evidentemente per il mondo è meno difficile avere memoria delle vite che sbocciano piuttosto che di quelle che si stanno spegnendo.