LA SUA CHIESA FUORI DALLA FORTEZZA

cardinale-martiniLA VITA DELLA CHIESA CATTOLICA NEGLI ULTIMI VENT’ANNI APPARE INDUBBIAMENTE SEGNATA DAL DIBATTITO, che ha toccato il magistero, la teologia, la riflessione di credenti a tutti i livelli, su quale sia la specifica missione ecclesiale e su quali debbano essere, alla luce delle novità sancite dal concilio Vaticano II, le modalità della sua presenza nella storia. Di questo confronto il cardinal Martini è stato indubbiamente uno dei protagonisti, per la sua capacità di intelligente lettura della realtà culturale ed ecclesiale, per lo spessore di autenticità che segnava la sua ricerca inesausta, di credente, biblista, vescovo, cittadino, per l’autorevolezza di cui godeva. In parole e in scelte pastorali significative il cardinale Martini ha attestato e ha consegnato una precisa visione di Chiesa: i discorsi pubblici (in particolare quelli pronunciati per la festa del patrono S. Ambrogio), le omelie, gli innumerevoli scritti scientifici e divulgativi, ma soprattutto l’impostazione pastorale data alla diocesi ambrosiana, alcuni incontri e gesti di forte sapore simbolico, delineano l’opzione per una precisa forma di essere Chiesa. Una visione di Chiesa maturata nel corso dei ventidue anni di episcopato, delineata non solo sulla base di una riflessione biblica e teologica sempre di altro profilo, ma accogliendo le sollecitazioni, le sfide, le critiche che gli venivano prospettate. «Un vescovo educato dal suo popolo», come si è lui stesso definito. Nel vivo di una città e di una concreta chiesa locale, quella di Milano, ha adempiuto, in modo magistrale, quel compito profetico che il Concilio affida ai vescovi. Perché la città e la diocesi non sono state per lui semplicemente lo scenario per una prassi pastorale di semplice applicazione e ripetizione che avrebbe potuto essere in fondo uguale ovunque, ma sono stati lo «spazio di umanità» in cui egli ha saputo «ri-comprendere» con sapienza la fede cristiana e annunciare il vangelo in un modo unico e significativo. Già con l’iniziare il suo ministero percorrendo a piedi le vie del centro con il vangelo in mano, il vescovo Martini ha richiamato – sul piano simbolico – il volto di una Chiesa che si confronta con i processi di complessificazione del vivere sociale, che non si sottrae alle logiche di un pluralismo culturale crescente e di una secolarizzazione che interpella tutti, collocando l’esperienza religiosa nello spazio delle scelte personali e autonome, ormai lontane da una appartenenza e socializzazione cattolica pensate come presupposto ovvio e indiscusso per tutti. In questo contesto Martini si è sottratto alle logiche semplificatrici di quanti ricercano un’influenza politica diretta o di quanti interpretano lo specifico della Chiesa nella custodia e trasmissione «della moralità in un mondo immorale» per privilegiare i percorsi lunghi di formazione delle coscienze, la fatica dell’interpretazione (della Scrittura come degli eventi storici), il valore della mediazione, una testimonianza pubblica della comunità ecclesiale (e non solo di singoli) che dicesse – sul piano simbolico – l’ascolto e la carità quali tratti qualificanti la vita cristiana oggi e che «irradiasse», senza imporre, un modo alternativo di vita sociale. Davanti a una Chiesa che rischia di apparire dispersa in sensibilità diverse e appesantita da molteplici attività, il cardinale Martini ha saputo riportare all’essenziale: la ragione ultima dell’esistenza ecclesiale, la sorgente vitale del suo dinamismo e il principio della sua riforma inesausta, è predicare il vangelo di Gesù. Tutto nella Chiesa deve essere rapportato a questo nucleo. Per questo ha potuto sviluppare una visione di Chiesa capace di riconoscere il valore del pluralismo e di una inclusività che non concede niente a uniformismo e omogeneizzazione. Per questo, in una stagione che vedeva
privilegiati i movimenti, ha ribadito il valore della parrocchia e del suo radicamento popolare sul territorio. Per questo ha posto – uno tra pochi – la domanda sulle modalità di esercizio dell’autorità nella Chiesa di oggi e ha ritenuto necessario lo sviluppo di forme sinodali e collegiali più efficaci. Nella critica testuale, a fronte di diverse versioni di un testo si privilegia sempre la lectio difficilior, la parola che sembra a prima vista illogica o incomprensibile nel contesto: il biblista Martini divenuto vescovo non ha mai preferito la via facile dell’affermazione della propria dottrina della verità o della riproposizione di prassi pastorali consolidate, ma l’arduo collocarsi in un confronto scomodo con interlocutori «altri» per formazione culturale e appartenenza religiosa o confessionale, consapevole che la verità va ricercata insieme, in un modo rispettoso dell’interlocutore e della sua ricerca libera. La Chiesa è chiamata a superare ogni tentazione di pensarsi come «fortezza assediata» per aprirsi alla coscienza di avere molto da imparare, da tutti, anche dai suoi avversari, come dice il Concilio. Non c’è più posto per un cristianesimo pensato nella logica di un sistema omnicomprensivo e omnirisolvente, che si pensa capace di risposte immediate davanti a ogni possibile domanda; Martini ci ha insegnato a essere credenti (e Chiesa) che con coraggio sanno porsi davanti alle «interruzioni» che segnano sempre il pensare e il vivere umano, laddove il già sperimentato o il già conosciuto lasciano il passo a un inedito, o dove il senso si trova correlato a quel «non-ancora» che la fede cristiana porta nel suo centro.

Intervento di Serena Noceti da “l’Unità” del 3 settembre 2012

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