LA POLITICA DEI MILIONARI

della-valleCon l’inserzione a pagamento di Della Valle, crescono le ambizioni politiche di grandi ricchi che incitano alla rivolta contro la casta. Ormai è un vero fenomeno di massa che contagia capitalisti, banchieri, finanzieri, tecnocrati. Dopo aver annusato il dolce profumo dei soldi, in tanti ora vogliono assaporare anche il gusto acre del potere. Una volta non sarebbe successo. Nessun capitalista all’antica, per il quale il tempo è denaro e la conduzione dell’azienda una faccenda molto complessa, avrebbe pensato di trascorrere minuti preziosi in sezioni, di correre nelle periferie a fare comizi o volantinaggi. Per il neocapitalista, per il quale il potere è denaro, la politica non è più fumo, muffa, litigi e cattivi odori. È invece un bene strategico da acquistare come un’altra postazione utile per stare sul mercato con una posizione di vantaggio. I sondaggi, i media, il denaro risparmiano dagli inconvenienti più fastidiosi del vecchio fare politica (stare a lungo nel territorio a contatto con problemi e persone) senza però cancellare i benefici di una conquista delle casematte del potere. Scorre lo spirito del tempo nello sgomitare dei ricchi che vogliono ottenere in concessione anche lo Stato. Prima ne affidavano la gestione a un personale politico specializzato capace di mediare tra interessi economici e bene pubblico. Si avvalevano del prestigio di un De Gasperi che seguiva una sua strategia di governo e poi magari riconosceva il debito verso il “quarto partito” (quello della Confindustria), o di un La Malfa che era il referente politico, non il megafono di un ristretto ma influente mondo economico-finanziario. Ora le oligarchie del denaro, il potere lo vogliono tenere ben stretto tra le loro mani e farlo lucrare come una merce preziosa in possesso di una fondazione, di un partito-azienda, di un comitato d’affari. Il bene scarso del potere fa gola ai capitalisti italiani che ormai guardano lontano dalla vecchia Europa dei partiti e sognano ad occhi aperti la splendida nuova geografia dell’est. Lì finalmente potere, calcio, affari si stringono in un dorato ingranaggio nel quale il denaro fa vincere le elezioni e la politica aiuta l’accumulazione di una smisurata ricchezza. Nella loro guerra santa contro la classe politica,gli imprenditori italiani sono immersi nel continuum perverso di economia e politica che è fonte dei guai della democrazia non certo la risposta al declino del sistema. Scarpe, giornali, calcio, tv, ferrovie non bastano più, le mire di ogni capitalista rampante ora si dirigono verso il potere da liberare dagli abusivi della casta. Questi continui investimenti politici da parte dell’impresa sono però il sintomo di una persistente condizione di crisi nel rapporto tra sistema politico e società civile. Le degenerazioni castali del ceto politico sono solo una goccia rispetto al mare della impresa che si fa Stato e colloca un grande capitalista al governo per vent’anni. Se un premier screditato resta comunque al suo posto è solo perché ha esteso persino al partito politico lo sbrigativo e servile spirito padronale di comando e obbedienza. Il “grido di dolore” di Della Valle è sterile e complice esso stesso della decadenza italiana se non coglie la perversione strutturale connessa al farsi governo di una grande impresa. Quando gli imprenditori se la prendono con la classe politica “di tutti gli schieramenti”, ed esaltano la società civile spinta da un nuovo condottiero proveniente da un’azienda di successo, contribuiscono ad accentuare la deriva del Paese. È una illusione regressiva e costosa per la stessa economia coltivare il mito di un nuovo ricco cavaliere evirato e riconciliato con la civiltà delle buone maniere. La parte più innovativa e dinamica dell’impresa non può prescindere da un suo disegno politico e quindi dalle alleanze, deve invece scrollarsi in fretta di dosso la velleità di trasformare spezzoni di aziende in un nuovo soggetto politico disegnato a ridosso di un connubio manipolativo di denaro e consenso. La lamentela di Della Valle stenta a prendere atto che il rendimento decrescente dell’economia è connessa in origine, e in modo strutturale, all’imprenditore che invade lo spazio pubblico e altera, con i codici del potere, la concorrenza tra gli attori di mercato e, con le risorse dell’economia, la competizione tra i soggetti politici. Quando ricchi manager annunciano di scaldare il motore per costruire fondazioni-partito operano come meccanismi di contorsione. Non aiutano la ripresa e la crescita. Dopo il tragico esperimento del Cavaliere, non è più tempo di replicanti nel ruolo farsesco di un Berlusconi dal volto umano. Anche l’impresa ha bisogno di rappresentanza politica, non di una miope autorappresentazione.

 

Articolo di Michele Prospero da “l’Unità” del 2 ottobre 2011

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