In una stagione politica già segnata da tensioni, divisioni e linguaggi sempre più esasperati, quanto accaduto ad Andrea Marinelli rappresenta uno di quei punti di non ritorno che impongono una riflessione profonda. Un commento sotto un articolo pubblicato da Radio Erre da un utente anonimo (già questo dovrebbe far riflettere sulla vigliaccheria dell’autore del commento e sul l’inopportunità di pubblicare i commenti anonimi), recitava con cinismo: “nato il 10 luglio 1973 praticamente sotto il segno del Cancro”. Un gioco di parole tanto sottile quanto vigliacco, un’allusione gratuita e crudele alla malattia oncologica che Marinelli ha affrontato in silenzio, con dignità, negli ultimi quattro anni.
Questa non è politica. Non è satira. Non è nemmeno critica. È violenza verbale. È disumanizzazione dell’avversario. È il frutto marcio di una deriva culturale che ha sdoganato l’insulto come strumento di confronto e la ferita personale come pretesto per delegittimare.
Marinelli ha risposto con una lettera aperta che dovrebbe essere letta nelle scuole, nelle sedi dei partiti, nei consigli comunali e regionali. Ha raccontato il dolore, la lotta, la scelta consapevole di non rendere pubblica la sua malattia fino a oggi, per pudore e per rispetto di chi soffre. E poi ha posto la domanda che dovrebbe risuonare in ciascuno di noi: “Perché usare la malattia come arma?”
Viviamo in un tempo in cui la lotta politica si confonde troppo spesso con il disprezzo personale. Ma c’è un limite che va riconosciuto e rispettato da tutti: quello della dignità umana. Attaccare un candidato sulla base della sua salute è un atto vile, che non ha nulla a che vedere con la competizione elettorale. È la negazione stessa del concetto di civiltà.
E’ doveroso dirlo con chiarezza: chi usa la rete per offendere, chi infierisce contro la fragilità, chi trasforma un tumore in un insulto ha perso prima ancora di cominciare. Ha perso in umanità. Ha perso in civiltà. Ha perso in politica.
Andrea Marinelli, con la sua lettera, ha scelto la strada più difficile: non rispondere con rabbia, ma con rispetto. Non alzare la voce, ma chiamare ciascuno a una riflessione collettiva. Perché le campagne elettorali possono essere dure, anche feroci, ma devono restare umane. Non possiamo accettare che il linguaggio pubblico venga inquinato da chi confonde il confronto con la crudeltà.
Di Livia De Pace