PICCOLI COMUNI: LA DEMAGOGIA E LA REALTA’

“Non sappiamo cosa alla fine verrà deciso approvando l’ennesima manovra finanziaria presentata dal Governo e che prevede tra le altre cose la soppressione e l’accorpamento dei Comuni con meno di mille abitanti. Una cosa però è fin d’ora certa, la proposta avanzata è debole dal punto di vista economico e sbagliata sotto il profilo civile e democratico.
Il Governo si propone, né più né meno, di staccare definitivamente la spina a quei Comuni che egli stesso ha colpito in modo durissimo e senza precedenti. Il sistema delle Autonomie locali è stato la vittima sacrificale predestinata di una destra centralista e discrezionale che, in barba al federalismo e incapace di affrontare la crisi, ha scaricato tagli insostenibili sulle comunità locali e sul “welfare territoriale, individuati strumentalmente come i luoghi dove si sarebbe annidata la “casta”.
Si pensi, ad esempio, al dibattito sull’abolizione delle Province. Basterebbe che si ovviasse agli errori di proliferazione del recente passato e si istituissero, come vuole la Costituzione, le Città metropolitane e si sarebbe già fatto un bel passo in avanti. Perché diversamente bisognerebbe dire in capo a chi andrebbero assegnate le funzioni che esse esercitano.
Ma andiamo con ordine. Il risparmio derivante dall’ipotizzata eliminazione di 21.593 consiglieri e assessori dei Comuni con meno di mille abitanti (immagino che anche costoro saranno stati annoverati nelle severe statistiche dell’antipolitica tra “coloro che vivono di politica”) costerebbe l’equivalente di 27 deputati!

Il vero risparmio può venire dalla gestione associata dei servizi, che è stata recentemente resa finalmente obbligatoria per tutti i Comuni con meno di 5.000 abitanti. Anche prevedendo un innalzamaneto di questa soglia si possono creare economie di scala interessanti che devono andare di pari passo alla qualificazione della spesa, che va spostata dalle funzioni generali ai servizi sociali ed educativi, dove i Comuni investono meno.

Il problema dei piccoli Comuni è che sono diventate insostenibili le diseconomie dovute alla gestione polverizzata ed estremamente differenziata da territorio a territorio dei servizi locali.Le attuali Comunità montane e le Unioni dei Comuni dovrebbero diventare, senza produrre ulteriori superfetazioni burocratiche, gli ambiti omogenei per una radicale riorganizzazione del sistema dei servizi locali e da questo punto di vista non è più differibile un intervento incisivo della nostra Regione. Così si potrebbero mantenere identità, cultura e rappresentanza di comunità secolari e al contempo creare con meccanismi cogenti, premiali e deterrenti, le necessarie economie ed efficienze nell’erogazione di servizi fondamentali. Senza usare l’accetta, si potrebbero quindi determinare risultati più consistenti dal punto di vista dei conti pubblici, ridando un qualche senso all’abusata espressione “federalismo municipale”. Due altri luoghi comuni vanno sfatati. Il primo è che il nostro numero di Comuni sia pletorico rispetto a quello di altri Paesi europei. La media europea è di un Comune ogni 4.132 abitanti, mentre in Italia essa è di un Comune ogni 7.490. Seguono Germania, Regno Unito, Spagna e Francia, nei quali il rapporto è più basso. Il secondo fa tutt’uno con il ragionamento che riguarda l’aspetto civile e democratico della questione: si pensa di tagliare istanze istituzionali e democratiche costituzionalmente previste, siano essi i piccoli Comuni o le Province, e si lasciano sopravvivere consorzi, autorità, enti, sui quali il cittadino non ha nessun potere di controllo democratico, mentre quelle stesse funzioni, che queste realtà gestiscono, potrebbero essere messe in capo ad organismi istituzionali, democraticamente eletti e verificabili nel loro operato. Insomma, i livelli istituzionali vengono dopo enti e strutture derivate, il che non è per niente logico. Allo stesso modo non si interviene con una qualche efficacia sulla fusione delle Agenzie fiscali, sulla razionalizzazione delle strutture periferiche dell’amministrazione dello Stato e la loro concentrazione in un ufficio unitario a livello provinciale, sul coordinamento delle forze dell’ordine in vista della loro progressiva integrazione, sull’accorpamento degli enti della previdenza, sulla riorganizzazione della rete consolare e diplomatica, sulla razionalizzazione dell’organizzazione giudiziaria civile, penale, amministrativa, militare e tributaria a rete. La verità è che se si avessero le idee chiare, la crisi sarebbe una straordinaria occasione per grandi cambiamenti, forse ad un primo impatto impopolari, ma sicuramente di grande beneficio. Se, invece, come è in questo caso, si è negata la crisi ed ora la si deve affrontare senza aver predisposto un disegno razionale di riassetto e riforma dello Stato e dell’amministrazione pubblica, agitando alla cieca il bisturi, si rischia di sfregiare un intero Paese. E’ quello che sta avvenendo; è quello che andrebbe evitato”.

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