Sta succedendo qualcosa di assai grave nel nostro Paese: prima a Torino, poi a Firenze si è aperta una caccia al “diverso”; nel primo caso, i Rom, nel secondo i senegalesi. Sembra di assistere a un brutto film americano degli anni ’50 e ’60; ma non è un film. Né serve, di fronte a tanta violenza, esprimere generiche condanne; si tratta di capire, con freddezza, quello che è avvenuto. Questi eventi drammatici sono il punto di arrivo di una campagna continua, sistematica, quotidiana, e senza quartiere, contro il “diverso” e tutto ciò è lontano da noi, dalla nostra cultura e dalla nostra religione. Né c’è dubbio che nel far precipitare la situazione abbia giocato un ruolo importante la Lega che ha alimentato sentimenti di tipo etnico, sfociati talvolta in posizioni razziste. Dire che tutta la responsabilità di questa situazione sia della Lega sarebbe però un errore; né consentirebbe di comprendere da quale profondità arrivino fenomeni di questo genere. Essi hanno attecchito in un terreno predisposto, specie in un momento di crisi radicale che, con sempre maggior durezza, spinge gli individui a rinchiudersi nel cerchio ristretto della difesa, con ogni mezzo, del proprio spazio vitale, dei propri interessi. Quello che abbiamo di fronte è dunque un fenomeno “materiale” assai più largo della Lega; ne è unaprova il fatto che a Firenze, e in Toscana, il partito di Bossi è tutt’oggi una forza minoritaria, priva di responsabilità di governo. Ma, paradossalmente, è proprio questo a rendere ancora più grave quello che è accaduto a Firenze, città di salde tradizioni civili, con un tessuto associazionistico assai forte, con comunità ecclesiali – cattoliche e non cattoliche – impegnate nella costruzione di iniziative e momenti di apertura nei confronti ,dei “diversi”, di tutti i “diversi”. Se fenomeni di questo tipo avvengono in Toscana vuol dire che il processo di degradazione del nostro “vivere civile” sta toccando un limite assai inquietante. Ma per capirli occorre saper guardare all’insieme della nostra società, ai “sensi comuni” diffusi, alla crisi – e al depotenziamento – dei valori di solidarietà, al prevalere del “bellum omnium contra omnes”, alla perdita di peso e di importanza, negli ultimi decenni, del valore sociale fondamentale che è, e resta, il lavoro. E, soprattutto, bisogna alzare gli occhi all’ “intero”, se si vuole capire il livello della crisi italiana: la morte dell’operaio a Trieste, pagato 5euro all’ora e il gesto del folle a Firenze si situano – a diversi livelli, ovviamente – nello stesso contesto. C’è però qualcosa di più profondo che si è spezzato in questi anni, in Italia e in Europa, e ora viene alla luce: è venuto meno il principio della “mediazione”, mentre si sono imposti progressivamente atteggiamenti e posizioni che tendono a risolvere direttamente i problemi, spezzando i vincoli giuridici e politici. A Londra come a Torino e a Firenze si sono rotte le logiche della mediazione e si è passati a incendiare, ferire, bruciare con le propri mani, senza alcuna delega. Quello che si manifesta in questi episodi è dunque la crisi della funzione “mediatrice” dello Stato, della rappresentanza politica, a cominciare dal Parlamento. Insommaquello che abbiamo di fronte è, al fondo, una crisi di vaste proporzioni della nostra democrazia politica e sociale. Se questo è il problema, esso può essere affrontato solo ristabilendo i principi di una democrazia politica efficiente e ricostituendo le basi “materiali” del nostro “vivere civile”, ridando, anzitutto, al lavoro il ruolo e la funzione che deve avere in una società democratica. Ma c’è qualcosa di specifico che si impone alla nostra attenzione, di fronte a eventi così cruenti: il problema del “diverso” non si può affrontare oggi con il “principio” nobilissimo della tolleranza; in una società come la nostra, e nell’epoca della globalizzazione occorre sviluppare politiche inclusive che mettano al centro il problema, ineludibile,della comune “cittadinanza” dei “nativi” e degli immigrati. Certo, quando il Presidente della Repubblica ha sostenuto che i figli degli immigrati nati in Italia vanno considerati italiani a tutti gli effetti, è stato criticato e perfino insultato; ma questa è la strada che si deve, e si può, seguire.
Articolo di Michele Ciliberto da “l’Unità” del 14 dicembre 2011