BOCCA, IL CRONISTA DELL’ITALIA LIBERATA DALLA RESISTENZA AL NUOVO MILLENNIO

bocca-giorgioNELL’ITALIA liberata prima ci disarmarono, parlo di noi partigiani, e poi ci chiesero di tenere in qualche modo in piedi la baracca dello Stato. A me, che avevo comandato una divisione di Giustizia e Libertà, offrirono, a scelta, un posto da vicequestore o da sindaco. Dissi che preferivo un posto da giornalista a GL, l’edizione torinese di Italia Libera, il quotidiano del Partito d’Azione a Torino”. Nel fiume sterminato della vita professionale di Giorgio Bocca è raro trovare lezioni di uno che si impanca a maestro di giornalismo. C’è questo momento fondamentale: il partigiano Bocca che, deposte a forza le armi, decide che per “tenere in piedi la baracca” c’era di meglio che buttarsi in politica. C’era da raccontare un Paese, da viaggiare e riferire, da incontrare gente e interrogarsi.

E’ quello che ha fatto per tutta la sua seconda vita, mai dimenticando quella prima da partigiano che l’aveva formato per sempre. La sua unica, sbrigativa lezione, risale sempre a quegli anni: “Il mestiere del giornalista è molte cose che si imparano: scrivere chiaro e in fretta, avere capacità di sintesi, non perdersi nei dubbi e nelle esitazioni, ma anche essere colto, aperto al mondo e alle sue lezioni, capace di emozioni, di solidarietà umana”: E ai giovani che gli chiedevano quale fosse il segreto (e si chiamavano Egisto Corradi, Bernardo Valli, Angelo Del Boca, Alberto Cavallari, Gigi Ghirotti), Bocca riservava una piccola rivelazione: “Non preoccupatevi, se un segreto c’è, è quello che avete già in testa, il segreto di chi ha orecchio per i suoni del creato, di chi ha occhio per la caccia, dello schermidore che sa parare e tirare”.

Da GL a un giornale vero, la Gazzetta del Popolo, nei tumultuosi anni del primo dopoguerra, e sono gli anni in cui Bocca scopre la cronaca barricadiera, le corse avventurose sui luoghi dei delitti, “la politica è spesso un alibi per continuare a uccidere. E noi che raccontiamo sui giornali ciò che accade viviamo ubriachi di gioventù fra i delitti e le macerie dei bombardamenti, nelle tane urbane lasciate libere dagli sconfitti”. La saponificatrice di Correggio. Gli scioperi contadini e le lotte operaie. I tardivi ritorni alle armi di piccoli gruppi partigiani, come quello “di un certo Tek Tek che si trincerò in un castello del Monferrato”, e la visita di Bocca finì a tavola con una bagna caoda. Le vendette del “triangolo rosso”. La strage di Villarbasse. L’alluvione del Polesine, via di corsa nella notte alla notizia che il Po ha rotto gli argini a Occhiobello, “la mia auto è una Topolino rossa, cinquecento di cilindrata, due posti, ma va sul ghiaccio e nel fango e non si rompe mai”. E poi in barca sulle acque che sommergono i paesi, “navighiamo a raccoglier naufraghi mezzi morti e mezzi vivi e ad ascoltare le loro storie”.

Nel ’54 il salto a Milano, all’Europeo di Rizzoli, “l’Europeo, scuola di giornalismo. A scuola dalla Camilla Cederna, che era una gran signora milanese, una donna elegante e curiosa, di una curiosità inesauribile, che la manteneva indenne dal tempo, senza una ruga, senza un’ombra di stanchezza, testimone attenta con il gusto di raccontare”. E Oriana Fallaci: “Ero nell’atrio della Rizzoli in piazza Carlo Erba, e dall’alto mi arriva la voce dell’Oriana che grida all’impaginatore: Riva, ma che fai? A quel bischero del Bocca un titolo a tutta pagina e all’Oriana due colonne?”. I viaggi per il mondo in compagnia del fotografo Moroldo, “che non era solo un bravo fotografo, era anche la mia guardia del corpo: più alto degli altissimi watussi, nerboruto e scattante. A cercare la Begum moglie dell’Aga Khan, a intervistare il Negus re dell’Etiopia, in Israele per le Guerra dei sei giorni.

Poi per Bocca venne la stagione del Giorno, chiamato dal direttore Italo Pietra, ex-partigiano come lui: “Avevo quarant’anni, conoscevo il mestiere, Pietra mi aveva assunto, doveva aiutarmi, capii che era arrivato il momento di impormi e nel giornale delle notizie brevi chiesi pagine intere, come il primo servizio su Vigevano, la città dei calzolai”. L’incipit di quel servizio è rimasto memorabile nel giornalismo italiano: “Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive non le ho viste. Di abitanti cinquantasettemila, di operai venticinquemila, di milionari a battaglioni affiancati, di librerie neanche una”. Sono gli anni in cui, sul Giorno che rappresentava il nuovo, le inchieste di Bocca raccontano l’Italia del boom economico. Cronache magistrali, che hanno fatto scuola per efficacia, personalità, curiosità. Più preziose di un libro di Storia. “Allora, quando giravo l’Italia per le mie inchieste, mi ero quasi convinto di essere uno che incuteva paura ai potenti, che poteva dirgli in faccia quel che pensava di loro. La megalomania dei giornalisti è quasi sopportabile nella sua ingenuità. La verità è che ero il giornalista di Enrico Mattei, del potentissimo Eni con cui i ‘padroni del vaporè dovevano fare i conti”.

Così Bocca racconta i capitalisti alla Pesenti, ma anche i nuovi ricchi come gli ex-mezzadri di Carpi diventati industriali della maglia, e poi la Lombardia dei treni operai, il processo Eichmann in Israele, il ’68 francese, la strage di Piazza Fontana, le Olimpiadi di Monaco. “Nel ’64 ero a Tokyo per seguire le Olimpiadi e il Giorno, con la disinvoltura geografica tipica dei giornalisti, mi fece sapere ‘Visto che sei lì, fai un salto a Saigon’.  Tornerà poi altre quattro volte a raccontare la guerra del Vietnam.

Nel ’76 Giorgio Bocca è fra quelli che si imbarcano nella nuova avventura di Repubblica, accettando la scommessa di Eugenio Scalfari e Carlo Caracciolo, quella di un quotidiano nazionale che vada a sfidare il radicamento di concorrenti storici, il Corriere della Sera, la Stampa, il Messaggero. Bocca racconta gli anni di piombo del terrorismo: “Era molto difficile fare il giornalista nei giorni del terrore. Il nemico che poteva ucciderti o gambizzarti poteva essere il signore della porta accanto, o un amico di tuo figlio. Un giorno vado a un’assemblea studentesca, si avvicina un giovane e mi chiede: ‘Tu sei Giorgio Bocca, il giornalista?’. Sì, rispondo. ‘Spiegami una cosa: perché nei tuoi articoli dici che non sai chi sono e dove vivono i brigatisti rossi? Vedi, in quest’aula ce ne sono almeno cinque, tre regolari e due ausiliari, non ancora clandestini, vivono a casa loro e collaborano quando occorrono'”.

Racconta i terroristi, andandoci a parlare, ma anche il generale Dalla Chiesa che dà loro la caccia. Nell’agosto del 1982 va a trovare a Palermo il generale, nominato prefetto antimafia: ne esce un’intervista memorabile, amarissima, rivelatrice dell’isolamento che avrebbe portato al suo assassinio soltanto un mese dopo. E ancora Bocca torna a raccontare l’Italia che cambia, la rivincita delle campagne piemontesi ed emiliane in chiave industriale. Il sindacalismo, l’ascesa di Bettino Craxi, il successo di Silvio Berlusconi con la nuova tv commerciale. Il leghismo e Umberto Bossi. Il sacrificio consapevole di Falcone e Borsellino.

E lungo tutta la carriera, i libri: dalla bellissima autobiografia Il Provinciale, al racconto della guerra partigiana, la storia della guerra fascista, la biografia di Togliatti, e i molti altri. E sempre volentieri Bocca è tornato sui luoghi della sua formazione, le montagne amate e vissute, di quando da “viaggiatore spaesato” (è il titolo di uno dei suoi libri più belli) riandava a rifugiarsi nella casa valdostana. Cercando il senso dello spaesamento nel silenzio della neve, scrutando aquile e gatti, alberi e prati. Nell’ultima pagina di “E’ la stampa, bellezza! La mia avventura del giornalismo” consegnava brusco una piccola lezione: “Ecco, la chiarezza come dote regina del giornalismo. Spesso cambiata per faciloneria o irresponsabilità, ma da cercare sempre, in modo che alla fine del viaggio uno possa dire: non ho camminato alla cieca, non ho capito tutto, ma i nostri grandi vizi e le nostre umane virtù li ho riconosciuti”.

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