Articolo di Ezio Mauro da “La Repubblica” 2 giugno 2016
Roberto Benigni, lei sa cosa avevano votato suo padre e sua madre al referendum che chiedeva ai cittadini di scegliere tra repubblica e monarchia, il 2 giugno di settant’anni fa?
“Due contadini socialisti come loro cosa potevano votare? Repubblica, naturalmente. Ne abbiamo parlato molte volte, in casa. La sera prima, mio padre disse a mia madre: ma tu, vuoi votare per il re, che sarà uno e uno solo, o per la Repubblica che ci farà diventare tutti re? Non ebbero dubbi, e non si sono mai pentiti”.
Si ricorda che qualche anno fa, a proposito di pentimento, si tentò di abolire tranquillamente la festa della Repubblica?
“Certo, fu quel galantuomo repubblicano – è il caso di dirlo – di Carlo Azeglio Ciampi a reintrodurre la festa. Abolirla? Una cosa da matti, come segare la base del monumento allo Stato. Anzi, come se la Chiesa, per non intasare le festività di fine anno, cancellasse il Natale”.
Se è per questo, la destra qualche anno fa tentò anche di abolire il 25 aprile, lo sa?
“Non ci volevo credere. È la data fondamentale della democrazia ritrovata, da quel giorno è nata la libertà di tutti, per tutti, da qualunque parte venissero. Sarebbe stato come cancellare la storia, è impossibile. Eppure ci hanno provato. Già questo ci dice che anni abbiamo vissuto. E ci dovrebbe risvegliare un po’ di passione in più per questa nostra Repubblica”.
Ce n’è troppo poca?
“Ha mai sentito l’orgoglio dei francesi quando parlano della “Republique”? Noi usiamo più facilmente la parola Stato, senza orgoglio, a voce quasi bassa. Capisco molte ragioni. Ma dico: bisognerebbe distinguere la politica corrente dalle istituzioni, le istituzioni dalla macchina amministrativa, e infine la politica buona da quella cattiva. Tutto quel che festeggiamo oggi, e il 25 aprile, ce lo siamo riconquistati, grazie agli Alleati certo, ma anche a quella ribellione di una parte del Paese al fascismo. Per questo lo Stato è “nostro”, anche se lo sentiamo spesso lontano”.
Non abbiamo memoria?
“Non abbiamo coscienza di noi stessi, della parte migliore di noi. Per la Repubblica, ad esempio, dobbiamo ringraziare le donne che quel 2 giugno ’46 sono state decisive per fermare la monarchia, molto alta nel voto nonostante il comportamento del Re col fascismo e con le leggi razziali. È impressionante pensare che fino a quel giorno le donne in Italia non avevano mai votato, provi a raccontarlo a due ragazzi di oggi. E come sempre quando scendono in campo, le donne hanno contribuito a cambiare: questa volta il Paese. Guardi che non era semplice, tra il popolo c’era il timore dell’anarchia istituzionale. Sa come si diceva nelle campagne quando si parlava di una grande confusione? Qui viene fuori una repubblica. Eppure la saggezza popolare seppe scegliere, e incominciò un’altra storia”.
Repubblica, Resistenza, Costituzione, Democrazia: sono questi i quattro elementi della nuova storia?
“Legati insieme. La Resistenza ha consentito di poter scrivere una Costituzione. E la Costituzione, all’articolo 1, sancisce in forma solenne che l’Italia è una Repubblica. E aggiunge quell’aggettivo: democratica. E quella formula fantastica, di cui oggi nella crisi comprendiamo tutto il significato: “fondata sul lavoro”. Poi nella Carta c’è come una sceneggiatura, un racconto che corre articolo per articolo fino all’ultimo, il 139, dove torna la Repubblica, per stabilire che la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione. Sembra quasi che i Padri costituenti se lo fossero dimenticati, quell’articolo, in realtà la Costituzione a ragion veduta si apre e si chiude parlando di Repubblica. Quell’articolo finale mi è sempre sembrato una specie di avvertimento per i posteri: oh, non vorrete mica scherzare… In ogni caso, guardate, noi mettiamo la Repubblica al riparo per il futuro, fidarsi è bene, ma non si sa mai”.
Lei questa sera porterà in replica “La più bella del mondo” al grande pubblico di Rai 1, dopo che nel 2012 la buona vecchia Costituzione fece 13 milioni di ascolti, contro gli 11 milioni dei “Dieci Comandamenti” due anni dopo. Dunque Calamandrei batte Mosè?
“Calamandrei, i suoi colleghi e i suoi avversari. Perché dietro la Carta, se si tende l’orecchio, si sente il frastuono della democrazia, che è lotta e scontro di interessi legittimi, di valori e soprattutto di idee. Però sa cosa c’era allora, e si capisce benissimo oggi leggendo quegli articoli? Un orizzonte comune, un impegno comune per il bene comune. E infatti quegli uomini e quelle donne sono riusciti a creare lo Stato repubblicano, la sua Costituzione e la democrazia senza violenza. Un momento di grazia”.
Che la politica non sa più ricreare?
“Ma guardi che la grazia va al di là della politica. Fu una rivoluzione di costume, culturale. Venivamo da vent’anni di fascismo, dalla guerra, con lo straniero in casa, il disprezzo della legge, un massacro morale, l’idea di Stato confiscata dalla dittatura. Ed è venuta fuori una costituzione solidale, altruista, con un forte senso di moralità civile. Sa come diceva Peguy, la rivoluzione o sarà morale o non sarà. Ecco, la ribellione al fascismo ha toccato solo una parte del Paese, ma ha innescato una rivoluzione morale, nel senso civico e repubblicano. È il caso anche per noi, pensando ai costituenti, di usare la formula di Churchill: mai tanti dovettero così tanto a così pochi”.
E allora che bisogno c’è oggi di cambiarla, questa Costituzione?
“Infatti farebbero bene ad attuarla, prima di pensare a cambiarla. La Carta è nata come una promessa alle generazioni future. Noi siamo qui riuniti – disse Calamandrei in quei giorni – per debellare il dolore e per ridurre la maggior quantità possibile di infelicità. Ci rendiamo conto? In questo senso la Costituzione, come la democrazia, è un paradosso, perché chiede a tutti le virtù di pochi”.
Ma la Carta non deve disegnare il paradiso, quella è una geografia che spetta alle religioni, non le pare?
“Nemmeno un paradiso terrestre, siamo d’accordo. Ma i Costituenti si sono preoccupati di disegnare la porta, perché sapevano benissimo che un paradiso da cui non si può uscire diventa facilmente un inferno. Dunque hanno previsto i meccanismi di revisione del loro testo. Io sono affezionato particolarmente alla prima parte, quella dei diritti e dei doveri, che per fortuna nessuno vuole toccare. Ma sulla parte dell’ordinamento dello Stato intervenire si può, anche tenendo conto della fase storica in cui la Costituzione è nata, dopo un periodo di umiliazione del Paese e delle sue istituzioni”.
Si riferisce alla storica paura del tiranno di cui parla Zagrebelsky, o alle accuse di riforma autoritaria per le norme sul Senato?
“Lei sa che io non sono né un costituzionalista né uno storico, parlo da cittadino. Ma dopo settant’anni di democrazia, se qualcuno volesse provare a farsi dittatore nell’Italia di oggi sa cosa verrebbe fuori? Un tiranno da operetta”.
C’è però l’eterno accomodamento democristiano. Giolitti diceva che la politica da noi quando trova un Paese gobbo invece di correggerlo gli confeziona un abito da gobbo: è il rischio della riforma del Senato, cercare l’autorità con l’accentramento del potere invece che con la politica e il consenso?
“Dopo Giolitti, e con sua buona pace, abbiamo avuto anche sarti perfetti. Guardi come hanno tagliato la Costituzione: altro che accomodamenti, piuttosto pedagogia democratica. Io credo che la cornice di valori della Carta non sia affatto in pericolo. Certo, bisogna tenere gli occhi aperti”.
Carta perfetta: ma perché la nostra democrazia non funziona?
“Potremmo dire perché da noi è nata prima la cultura poi lo Stato. Ma guardi che anche oggi, con tutti i guai che abbiamo, noi veniamo scelti come modello addirittura dagli Stati Uniti, che sono la più grande democrazia del mondo”.
E per che cosa?
“Ci copiano, e anche spudoratamente. Non vede che sta correndo per la Casa Bianca un imprenditore miliardario, che non si è mai occupato di politica, che è sceso in campo per tutelare i suoi interessi, che ha dei guai giudiziari per evasione fiscale, che fa una gaffe dietro l’altra, che si circonda di belle donne e che ha problemi con i capelli? Copiato da noi, tutto. Poi ci sono giornalisti che si domandano come si può eleggere uno così. Ma noi lo abbiamo già fatto, ci siamo arrivati vent’anni prima. Gliel’ho detto, ci lamentiamo sempre eppure siamo un modello da esportazione, anzi siamo dei pionieri”.
Non trova scorretto, da cultore appassionato della Carta, che Renzi trasformi un referendum costituzionale in un plebiscito personale? Non le ricorda Fanfani nel referendum sul divorzio?
“Mi ricorda più un giocatore di poker, quelli che si puntano l’intera posta spingendo le fiches con le mani: all in. Ma guardi bene e ascolti meglio, perché può esserci il trucco all’italiana”.
Quale trucco?
“Renzi non dice mai se perdo vado via, me ne vado. Dice: se perdo vado a casa”.
E allora?
Stia attento: dov’è casa sua? Lui abita da due anni a Palazzo Chigi. Capito?”.
Ma lei cosa voterà al referendum? Mi è sembrato indeciso, prima ha detto sì, poi no. Dunque?
“Ho dato una risposta frettolosa, dicendo che se c’è da difendere la Costituzione, col cuore mi viene da scegliere il “no”. Ma con la mente scelgo il “sì”. E anche se capisco profondamente e rispetto le ragioni di coloro che scelgono il “no”, voterò “sì””.
Perché?
“Sono trent’anni che sento parlare della necessità di superare il bicameralismo perfetto: niente. Di creare un Senato delle Regioni: niente. Di avere un solo voto di fiducia al governo: niente. Pasticciata? Vero. Scritta male rispetto alla lingua meravigliosa della Costituzione? Sottoscrivo. Ma questa riforma ottiene gli obiettivi di cui parliamo da decenni. Sono meglio del nulla. E io tra i due scenari del giorno dopo, preferisco quello in cui ha vinto il “sì”, con l’altro scenario si avrebbe la prova definitiva che il Paese non è riformabile”.
Ma di Renzi lei si fida?
“Renzi è una persona che stimo. Quando recitavo Dante a Firenze veniva ogni sera, e ogni volta si sedeva più a destra. Prima due file più in là, come per provare, poi quattro, poi sei. Andava sempre a destra, io lo facevo notare al pubblico con una gag infantile, che creava un sacco di risate, segno di popolarità e di simpatia. Anche perché in Toscana le case del popolo sono piene di matteorenzi che dicono che fanno tutto loro. Il personaggio è conosciuto”.
E Verdini, conosce anche quel tipo?
“Toscano più di Renzi, toscanissimo. Me lo vedo su una piazza, nel mercato, che ti vuol vendere qualcosa e ti convince, poi torni a casa e non sai che fartene. Farebbe bene la Volpe in Pinocchio. Ma anche l’Omino di burro che raccoglie i ragazzi somarelli e li porta via nel Paese dei Balocchi promettendogli la settimana dei tre giovedì. Ma forse hanno fatto le unioni civili apposta per regolarizzare il suo rapporto con Renzi”.
E Grillo?
“Abbia pazienza, sono un comico, non posso criticare un mio collega. In realtà riconosco la passione di molti grillini. Ma vede, amando la politica, detesto l’antipolitica. Come si fa a dire candido chiunque ma non un politico? Lo diresti di un chirurgo prima di un’operazione? E poi, questa esaltazione dell’ignoranza, questo rifiuto della politica è un rifiuto di occuparti della tua vita, di quella dei tuoi figli e degli altri. Si punta sul caos rifiutando l’intero sistema e fingendo che tutti siano uguali. Non lo sono mai: anche tra due terribili ce n’è sempre uno meno peggio, esiste sempre la possibilità di distinguere”.
Salvini le fa rimpiangere Bossi?
“Quei politici che sfruttano la paura degli stranieri e puntano a conquistare gli altri passando dal loro lato più debole non sono soltanto xenofobi, sono soprattutto volgari e vecchi, ci tengono inchiodati al passato. Chi ripete che destra e sinistra sono superate, dovrebbe guardare in faccia questa destra e capire che c’è bisogno se mai di più sinistra, una sinistra ragionevole, di governo, solidale ed europea. E invece vogliono portarci fuori dalla Ue. Provi a domandare ad un ragazzo di quindici-diciotto anni se vuole i muri con l’Europa. Provi. I nostri figli sono italiani così come sono europei, per loro è un dato naturale. Ecco perché la destra xenofoba è fuori dalla storia”.
E perché allora sconfigge le socialdemocrazie in Occidente, attacca con successo il pensiero liberale nell’Europa di mezzo?
“Perché i principii da soli non bastano, ci vogliono gli uomini che sappiano riproporci un sogno. Il corpaccione della vecchia Europa ha corso così tanto per ricostruirsi dopo la guerra, che adesso dovrebbe fermarsi un po’, perché finalmente lo raggiunga l’anima. Senz’anima l’Europa è moneta e burocrazia: troppo poco”.
Benigni, andrà a votare domenica alle comunali o pensa che Roma sia ormai ingovernabile?
“Penso che Roma sia magnifica, e che si possa raddrizzare. Dovendo scegliere una persona per bene, dopo gli scandali, penso che Giachetti sarebbe un buon sindaco. Quanto a votare, ci vado sempre. Ognuno di noi ha più potere di quel che pensa, e io non lo butto via”.
Non ha paura di passare per renziano, col suo sì al referendum?
“E cosa dovrei fare? Non votare come penso per il conformismo dell’anticonformismo? Non voglio rimanere neutrale, lavarmene le mani dicendo che faccio l’artista, voglio essere libero. E la libertà non serve a nulla se non ti assumila responsabilità di scegliere ciò che credi più giusto”.
Prenderebbe Renzi in braccio, come Berlinguer?
“Io ho qualche anno in più, lui qualche chilo di troppo. Diciamo che entrambi non abbiamo il fisico per farlo”.