LO STILE È TUTTO, DICE UN PROVERBIO. COME MOLTI PROVERBI ESAGERA PER DIRE QUALCOSA DI VERO. IN FATTO DI STILE NOI ITALIANI SIAMO TALORA UN PO’ CARENTI E QUESTO, IN CERTI CASI, CI RENDE ALL’ESTERO POCO APPREZZATI E FIN TROPPO POPOLARI, senza pregiudizio per altre nostre virtù che sono universalmente riconosciute. Lo stile politico, per esempio, ha subito negli ultimi anni in Italia degenerazioni spaventose, che commentatori e gazzettieri in mala fede o cointeressati volevano far passare come nuovi modi di far politica e nuovi stili creativi. Almeno due terzi degli italiani all’insediamento del governo tecnico hanno tirato un sospiro di sollievo: era finito l’orrore, tornava la normalità. Tanto più dispiace la caduta di stile di questi giorni, quando di nuovo il Presidente del Consiglio deve rettificare, ritrattare, precisare, chiedere scusa: bastava ricordare che quanto più alta è la responsabilità operativa, tanto più controllata deve essere l’esternazione pubblica. Solo chi non è protagonista può permettersi in politica giudizi audaci e valutazioni personali, perché il mondo dell’informazione è fatto com’è fatto e ignorarlo è solo ingenuità. Caduta di stile è poi anche quella di sfruttare l’informazione per mandare avvertimenti o togliersi, come si dice, sassolini dalla scarpa (già mettendo in conto poco decenti smentite). In questo uso del far notizia sparandole grosse, spicca l’uscita di un presidente di partito, ormai fuori dai giochi, che dà della canaglia a Manzoni, reo di cospirare con i Savoia nell’imporre la lingua italiana agli italiani. Fosse vera questa amenità, resterebbe l’immagine orripilante di milioni di persone che si vorrebbe parlassero come il succitato comiziante. Giustamente preoccupato della gaffe, un autorevole membro del medesimo partito ha scusato il vecchio collega con l’ipotesi del colpo di sole (non il massimo dello stile), aggiungendo per parte sua che non è concepibile criticare uno scrittore famoso che ha prodotto così affascinanti romanzi. Peccato che il romanzo sia uno solo. Forse voleva dire opere e gli è scappato romanzi, ma insomma, se si parla in pubblico anche lo stile «culturale» di ciò che si dice ha il suo peso. Lo stesso si può notare a proposito delle attuali Olimpiadi, dove mi pare si possa dire che alcuni nostri rappresentati qualche limite lo abbiano mostrano: dal nuotatore che se la prende pubblicamente con tutto e con tutti alla giovanissima ginnasta che, perso il podio per un nonnulla, si lascia andare a dichiarazioni inopportune nel contenuto e, appunto, nello stile; dichiarazioni che si concentrano sulle fatiche e i sacrifici di quattro anni non debitamente ricompensati e poi su accuse grossolane di furto, accompagnate dalla solita denuncia della scarsa considerazione della quale soffrirebbero gli italiani alle Olimpiadi e altrove. Perché i responsabili non hanno fermato in tempo l’ingenua e sprovveduta ragazzina? Non rientra forse nei loro compiti l’educazione allo spirito dello sport e alla eleganza e correttezza di comportamento? Non avrebbero in tal modo giovato alla nostra giovane atleta e, appunto, alla considerazione che possiamo aspettarci dagli altri? Dello stesso tenore è l’insopportabile piagnisteo del marciatore dopato, che si lamenta della fatica degli allenamenti e della durezza della preparazione, come potrebbe farlo un portabagagli della stazione, che avrebbe tutte le ragioni di sottolineare la durezza del suo lavoro. Davvero lo spirito della vocazione sportiva è sceso così in basso, legandosi unicamente alla brama di successo, di fama e, ovviamente, di denaro, da non far più neppure avvertire la dissonanza del mettere apertamente in mostra queste volgarità prive, se non altro, di stile? C’è una crescente maleducazione, dalle nostre parti. Non si capisce perché dobbiamo continuare a essere il paese nel quale i servizi igienici sono molto più scalcinati e disgustosi rispetto ad altri paesi, appena al di là del confine; perché nella maggior parte dei ristoranti si debba mangiare in un frastuono indescrivibile, sicché non si vede l’ora di uscire: basterebbe che tutti smettessero di gridare e parlassero a bassa voce, come accade altrove; perché in treno i telefonini non smettano di importunare i viaggiatori e così via.
Articolo di Carlo Sini da “l’Unità” dell’11 agosto 2012